La metodologia del Judo come riabilitazione e sport delle persone con minorazione visiva.

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Le possibilità riabilitative legate alla pratica del Judo sono molteplici, come pure le azioni agonistiche presenti nei diversi tipi di competizioni. La personalizzazione degli apprendimenti trova una collocazione predominante nella metodologia educativa ideata da Jogoro Kano, in modo che ogni judoka possa trovare la sua Via di realizzazione.
Le linee guida del metodo Kodokan Judo, ovvero crescere insieme per migliorarsi con "amicizia e reciproca prosperità" attraverso "il miglior impiego dell’energia", sono in piena sintonia con i principi di allenamento delle capacità motorie ed in particolar modo con le componenti di riabilitazione funzionale nell’ambito dell’orientamento e mobilità delle persone con minorazione visiva; come pure le svariate forme di competizione agonistica possono essere affrontate con successo dai ciechi e dagli ipovedenti.

In origine l’insieme d’isolette, che oggi è denominato Giappone, era popolato da tribù di razza bianca, poi con le navigazioni arrivarono uomini gialli, cinesi e coreani. Più tardi dal sud provenne un’altra razza, la Yamato che, più evoluta anche militarmente, iniziò la conquista delle isole. Non volendo però distruggere ma sottomettere le popolazioni per poi creare uno stato unito, ricorsero spesso alle cosiddette “prove di forza” dove un campione si scontrava con un campione locale a mani nude fino alla morte: chi perdeva si sottometteva. Quest’usanza rimase anche dopo l’unificazione e portò alla formazione di una classe di lottatori professionisti. Con il progressivo costituirsi di una precisa struttura sociale, si ebbe un processo di codificazione della lotta che portò alla nascita del Sumo che, insensibile al trascorrere dei secoli, ha fatto giungere fino a noi una millenaria tradizione.
I secoli di guerra che sconvolsero il Giappone portarono alla formazione di una classe di guerrieri di professione, i Samurai, nella cui formazione era prevista una forma di difesa a mani nude, il cui insegnamento rimase gelosamente custodito nella ristretta cerchia dei vari Clan guerrieri.
Lo Shogun Tokugawa fu il primo che riuscì a riunire sotto di sé i vari feudi garantendo, con una
formidabile polizia segreta, un lungo periodo di pace. A seguito di ciò migliaia di guerrieri si trovarono senza lavoro. E’ l’epoca in cui diventa massiccia la presenza dei Ronin, samurai senza padrone, che vagano senza meta e senza scopo per il paese.
Una spaccato fedele e suggestivo di questo periodo di disagio sociale si può ritrovare in alcuni
film del celebre regista A. Kurosawa, come “I Sette Samurai”, “Yojimbo” e “Rashomon”.
Si può definire questa l’epoca d’oro del Ju-Jutsu, che venne diffuso con una dozzina di denominazioni diverse. Poi il declino, quando nel 1853 gli Stati Uniti costrinsero il Giappone ad aprire le porte all’Occidente e, nel 1868, la restaurazione Meiji esautorò completamente la classe militare ed un editto imperiale proibì ai Samurai di portare la spada in pubblico.
Una rivoluzione sociale che sconvolse il paese e in questa affannosa corsa alla modernizzazione le vecchie arti vennero dimentica; il Ju-Jutsu non fece eccezione e, nella seconda metà dell’800, la sua immagine sociale fu completamente screditata.
E’ in questo periodo che compare la figura di un giovane professore universitario, il Maestro Jigoro Kano, nato a Mikage, nella prefettura di Hyogo, nell’ottobre del 1860 da una famiglia di noti produttori di Sakè. Nel 1871 si trasferì a Tokyo con la famiglia e nel 1873 si iscrisse ad una scuola privata di inglese; fu in quel periodo che il giovane Kano cominciò ad interessarsi del Ju-Jutsu.
Nel 1877 fu fondata l’Università di Tokyo e Kano si iscrisse alla Facoltà di Lettere.
Dotato di ferrea volontà, Kano fece progressi talmente rapidi ed importanti che fu ammesso alla conoscenza dei Densho, i libri segreti, in cui ogni scuola custodiva gelosamente gli insegnamenti più segreti, appunto, del Maestro fondatore.
Kano scelse per il suo metodo il nome “Judo Kodokan”. Nel 1882 si trasferì nel Tempio di Eisho e lì attrezzò una piccola sala di dodici tatami. Il 5 giugno 1882, quindicesimo anno dell’era Meiji, viene ufficialmente considerata la data di nascita del Kodokan.
Il Judo insegnato da Kano era però qualcosa di profondamente diverso nella tecnica e nelle finalità da quello comunemente conosciuto; inoltre, vista la scarsa considerazione di cui quest’arte godeva, occorreva darsi una nuova immagine lavorando duramente per l’affermazione e la diffusione della sua creazione.
La vittoria definitiva giunse nel 1886 quando, in un Torneo organizzato dal comandante della Polizia Metropolitana di Tokyo, il Kodokan sconfisse in un match epico una delle più famose scuole di Ju-Jutsu; da allora si espanse sempre più, in altre parti del Giappone e nel mondo intero.
Jigoro Kano morì il 4 maggio 1938 a bordo del piroscafo che lo stava riportando in patria dal Cairo. Il Judo dal 1964 è Sport Olimpico; viene praticato in tutto il mondo utilizzando sempre la lingua giapponese in modo da permettere a tutte le persone di diverse nazionalità di gareggiare e crescere insieme.



Trasformare una tecnica (Jutsu) in un principio di vita (Do), questa fu la profonda innovazione di
Kano. I due aforismi che egli stesso ideò per definire il Judo, “Massima Efficacia con il Minimo
Sforzo” e “Prosperità e Mutuo Benessere”, sono la sintesi dell’intero metodo.
Nelle varie conferenze tenute, Kano ebbe modo di chiarire ampiamente questi concetti;
“Massima Efficacia” deve essere ricercata nella utilizzazione del corpo e della mente.
Applicando questo principio al corpo otteniamo un’ottima forma d’educazione fisica; nel contempo si possono ottenere importanti miglioramenti dal punto di vista intellettuale e morale: diventa così una forma educativa in senso lato. Lo si può applicare però anche a tutte le problematiche della sfera sociale: in tal modo assume l’aspetto di un modello di vita. Questo principio universale è il Judo, che consiste quindi, oltre che nell’allenamento del corpo e della mente, in una regola ispiratrice nei rapporti sociali. In palestra si sente spesso “tu aiuti me, io aiuto te”; questo è il Judo, un’essenza che si vive splendidamente quando il gruppo contiene delle valenze personali molto diverse tra loro. Occupandomi professionalmente di riabilitazione sono convinto che il Judo contenga le coordinate proprie di ogni corretto progetto rieducativo e riabilitativo. I programmi delle lezioni, oltre ad incentivare le funzioni primarie prettamente fisiologiche, dal miglioramento dell’excursus articolare al tono-trofismo muscolare, dal potenziamento delle funzioni cardio-circolatorie a quelle respiratorie, contemplano attività mirate al recupero ed alla strutturazione delle componenti psicomotorie della persona, dalla valorizzazione della propriocettività all’adeguamento corretto delle posture nello spazio e con il compagno.
Lo studiare ed il praticare l’attacco e la difesa è un aspetto del Judo: il comprendere il principio della Massima Efficacia è la chiave di volta, perché è vitale anche lo studio della tecnica.
E’ però impossibile applicare la Massima Efficacia, il migliorare il corpo e lo spirito attraverso lo
studio della difesa e dell’attacco, se tra i componenti del gruppo non vi è armonia, e questa la si può
ottenere solo tramite la disponibilità e le reciproche concessioni, che generano “Prosperità e Mutuo
Benessere”. Il fine ultimo del Judo è educare l’individuo al rispetto ed all’applicazione di questi due principi.Considerando il Judo dualisticamente si può considerare “Prosperità e Mutuo Benessere” il fine, “Massima Efficacia” il mezzo.
Quindi, se il judo è un “mezzo, e non un fine”, per la realizzazione della persona che lo pratica, cioè del judoka, vuol dire che ogni judoka ha la sua strada, così come le persone con minorazione visiva che sono judoka hanno la loro.
Che si parli di bambini con minorazione visiva alle prime esperienze motorie e di autonomia; che ci si rivolga a giovani e adulti ciechi o ipovedenti con diverse competenze, avremo un approccio diverso alla pratica del dojo, ovvero della palestra-scuola dove si pratica il judo.
Le varie unità didattiche o attività agonistiche che, per fornire stimoli di esempio, verranno presentate di seguito dovranno essere correttamente calibrate ai gradi di autonomia e crescita degli atleti.
Ma come è fatta una palestra di Judo, ovvero un dojo?
Vi è una stanza grande con a terra un tatami, un tappeto grande, morbido ma sostenuto; con spazi ben contrastati cromaticamente; l’ideale per muoversi in sicurezza, per giocare con i compagni in uno spazio senza ostacoli, per cadere, strisciare, rotolare e divertirsi.
Ma la piacevole sensazione che in qualche modo crea stupore e curiosità nel principiante, è l’atmosfera che normalmente regna nei Dojo. Situazioni che normalmente non vengono vissute nel contesto famigliare o scolastico; esercitarsi a piedi nudi, avere il contatto con il tatami, indossare correttamente il judogi e la cintura, praticare il Rei, ovvero il saluto con l’inchino al posto dell’ormai acquisito “five”, avere il contatto corporeo diretto e costante con altre persone conseguente all’applicazione delle seppur maldestre tecniche, accettare la possibilità che maschi e femmine si allenino reciprocamente senza particolari problemi, curare profondamente l’igiene personale, accettare il fatto che non si possa urlare o fare schiamazzi.
Solo questi pochi elementi, che non esauriscono sicuramente la casistica legata alle innumerevoli reazioni di un neofita alle prese con una disciplina di contatto, danno un’idea di come queste novità vengano vissute e recepite dalla persona con minorazione visiva: non come una banale coreografia, ma bensì come strumenti indispensabili per esercitare una disciplina, con tradizioni provenienti da un altro Continente e pertanto con origini culturali diverse, che propone esperienze del tutto dissimili da quelle solitamente avute.
Non esiste nulla in un Dojo che non abbia un significato e che non abbia un ruolo definito nell’apprendimento del Judo.

Come si indossa un judogi?
Il vestito con il quale si pratica il judo è molto semplice e offre diverse possibilità di crescita nelle competenze di autonomia. I pantaloni in cotone sono facilmente indossabili e si legano con un lacciolino. La giacca, anch’essa in cotone, ma più spesso, permette facilmente di capire il diritto/rovescio, il davanti/dietro, e non presenta bottoni di chiusura. La cintura in cotone che chiude la giacca è grossa, si può provare agevolmente e capire i nodi che servono per tenerla vicino al corpo. Alcuni ragazzini con minorazione visiva iniziano ad apprendere le dinamiche legate alla gestione dell’abbigliamento con la tenuta da palestra, ritrovando poi queste abilità in contesti familiari. I judogi sono tutti di colore bianco, cosa che tende ad unire ed unificare il gruppo; mentre le cinture sono di differenti tonalità cromatiche, molto ben contrastate, ed indicano il grado di esperienza del judoka.

Ma che cosa si fa in palestra?
Per prima cosa si impara a cadere. E’ basilare conoscere bene ed eseguire con padronanza le ukemi, cioè le diverse possibilità di ammortizzare, assorbire e recuperare gli squilibri nelle direzioni fondamentali. Esistono diverse modalità, a seconda che si cada avanti, indietro, a sinistra o a destra; ma il poter cadere in sicurezza permette al judoka di muoversi liberamente durante il combattimento, senza paura di procurarsi dolore o lesioni dalle tecniche dei compagni.
In situazioni ove, per anni, è stato insegnato a non cadere per nessun motivo, pena gravi danni fisici,
occorre una adeguata giustificazione tecnica e appropriati esercizi propedeutici per far accettare questa nuova situazione in cui la caduta non solo è indispensabile per affrontare la tecnica senza conseguenze fisiche, ma è, addirittura, un’efficace esercizio per acquisire sicurezza e controllo del proprio corpo. Se ci pensiamo bene il poter cadere in sicurezza permette altresì alla persona con minorazione visiva di gestire lo spazio con meno timori, senza titubanze, avendo la consapevolezza e la competenza motoria di arginare senza traumi un’eventuale caduta. Per gestire gli spazi urbani è sicuramente ottimale un atteggiamento di questo tipo perché predispone l’individuo all’ascolto dei dati esterni senza preoccupazioni eccessive.

Ma si combatte?
Certo. Abbiamo visto come l’azione di divulgazione di Jogoro Kano fosse impostata a portare la più ampia diffusione della metodologia; a tal fine dal judo tradizionale che comprende anche calci, pugni ed uso delle armi, è stato scorporato un judo sportivo agonistico che può essere quantificato e valutato durante le competizioni. Non si hanno quindi, durante i combattimenti o gli allenamenti degli eventi non regolati, fonte di dolore e di traumi; si possono utilizzare le tecniche di proiezione in piedi, le immobilizzazioni a terra, le leve articolari e gli strangolamenti finalizzati alla resa dell’avversario. Vince chi fa un “ippon”! Ovvero una sorta di k.o. dell’avversario. Fare un bel ippon è l’obbiettivo di ogni judoka.
In tutte queste azioni vi è sempre contatto con l’avversario/compagno.
Questo aspetto del contatto ha senz’altro una valenza particolare. Vi è contatto dei piedi nudi sul tatami, esistono diverse posizioni e rotazioni del proprio corpo che si basano sull’ascolto delle sensazioni podaliche per capire l’azione svolta e quella da compiere. Avere una competenza di questo tipo, mentre ci si sposta in autonomia in situazioni urbane, permette di rilevare diverse caratteristiche del terreno e di decifrare i sistemi di linee guida pavimentali, ampliando notevolmente le informazioni che il non vedente riceve dall’ambiente.
Altra peculiarità del contatto è quella di poter toccare un compagno ed essere toccati. Mette in relazione fisica le persone, permette ed obbliga ad entrare nello spazio dell’altro. Il tutto però senza diverse sensazioni che quelle di praticare judo. Cioè, è il gioco del judo che fa sì che ti debba prendere per la giacca e tirare; che possa sentire le tue mani che mi afferrano la giacca e mi spostano. E sicuramente, oltre a tutte le valenze psico-relazionali che ne conseguono, inizio a capire come il mio corpo si sposta nello spazio, come è posizionato rispetto al tuo, quali azioni motorio-meccaniche si possono applicare per portare la situazione in mio favore. La costruzione dello schema corporeo e della lateralità, anche in assenza di visione, diventa in questo modo agevolata, implementata e strutturata in situazioni statiche e dinamiche.
Dopo una breve storia, dopo alcuni semplici esempi di cosa viene fatto in palestra, analizziamo in modo scientifico quelle che sono le valenze dell’allenamento di judo.
L’allenamento sportivo è un processo pedagogico-educativo complesso, che si concretizza con
l’organizzazione dell’esercizio fisico ripetuto in quantità ed intensità tali da produrre carichi
progressivamente crescenti, che stimolino i processi fisiologici di supercompensazione e migliorino
le capacità fisiche, psichiche, tecniche e tattiche dell’atleta al fine di esaltarne e consolidarne il
rendimento in gara (C. Vittori).
Oltre tale sintetica, anche se completa, definizione occorre ricordare che l’allenamento specifico del judoka tiene in considerazione gli aspetti: tecnico, perfezionare i gesti specifici della disciplina; condizionale, incrementare delle principali capacità condizionali (Forza, Velocità, Resistenza);
tattico, tendere ad ottimizzare le proprie prestazioni attraverso una appropriata condotta di gara;
psicologico, ricerca un ideale stato di forma mentale atto a vincere, o meglio, a controllare e sfruttare positivamente i vari stati emozionali
Va sottolineato quanta importanza venga destinata nel judo alle capacità motorie, che sono il presupposto di base per realizzare consapevolmente l’azione motoria, il loro grado di sviluppo condiziona la strutturazione degli schemi motori e l’acquisizione delle abilità motorie.
Le capacità motorie possono essere classificate in due categorie: quelle condizionali e quelle coordinative, che insieme agli schemi motori di base (camminare, correre, saltare, rotolare,
afferrare, lanciare ecc.), concorrono all’acquisizione delle abilità sportive e, nelle persone con minorazione visiva, sono il substrato essenziale sul quale inserire gli apprendimenti legati all’orientamento ed alla mobilità autonoma.
Le capacità coordinative possono essere definite come capacità di organizzare e regolare il
Movimento ed hanno la loro base nelle capacità funzionali del sistema sensomotorio (sistema nervoso, muscolatura, sistemi percettivi: visivo, tattile, acustico, cinestesico e dell’equilibrio).
Le capacità coordinative comprendono:
- capacità di apprendimento motorio: assimilazione e acquisizione dei movimenti o parte di essi determinando i tempi e i progressi che si compiono;
- capacità di controllo motorio: controllo del movimento finalizzato all’obiettivo programmato;
- capacità di adattamento e trasformazione dei movimenti: adattamento del movimento alla eventuale modificazione improvvisa della situazione o delle condizioni esterne per cui il risultato prefissato non cambia;
- capacità di equilibrio: possibilità di effettuare un’azione in condizioni di equilibrio precario dovuto alla ridotta superficie d’appoggio o all’influenza di forze esterne;
- capacità di combinazione motoria: organizzazione di una sequenza motoria collegando più forme autonome e parziali di movimento;
- capacità di differenziazione spazio-temporale: possibilità di dare un ordine sequenziale a movimenti parziali per trasformarli in un atto motorio unico e finalizzato, acquisendo la dimensione del prima, del dopo, del lento, del veloce, ecc. e la conoscenza dei concetti di avanti, dietro, lontano, vicino, sopra, sotto, ecc.;
- capacità di differenziazione dinamica: modulazione dell’impegno muscolare in relazione alle informazioni che provengono dall’esterno;
- capacità di anticipazione motoria: lettura e previsione dell’andamento di un’azione o del momento in cui possono presentarsi certe situazioni in modo da prepararsi e programmarsi in anticipo per reagire rapidamente e in modo adeguato;
- capacità di orientamento: determinare la posizione di una parte del corpo o della sua totalità nello spazio e modificare i movimenti entro lo spazio di azione in relazione ad oggetti o ad altre persone;
- capacità di reazione motoria: reagire rapidamente e in modo adeguato ad uno stimolo esterno;
- fantasia motoria: risolvere in modo originale un problema motorio, creando e riproducendo nuove forme di movimento usate anche come mezzo di comunicazione.
Per lo sviluppo delle capacità coordinative si propongono esercizi aumentando le difficoltà di
esecuzione, variando le informazioni, il ritmo, la velocità e le condizioni esterne sia ambientali che
degli attrezzi, combinando più movimenti, proponendo esercizi con entrambi gli arti o da entrambi i
lati.
Queste capacità si sviluppano chiedendo ripetutamente l’utilizzo del sistema sensomotorio facendo eseguire esercizi con livelli di sollecitazione crescenti (aumento delle difficoltà o dei compiti richiesti o della precisione ecc.).
Le capacità condizionali sono legate a fattori energetici, dipendono dalle caratteristiche biochimiche, morfologiche e funzionali di ogni individuo, sono quindi fortemente connesse ai requisiti strutturali individuali, all’età, al sesso, al peso, alla statura, alla massa muscolare e ai
processi funzionali controllati dal sistema nervoso.
Le capacità condizionali sono tre: la forza, la velocità e la resistenza; hanno criteri di allenamento e potenziamento che si differenziano e che vengono perseguiti con tenacia ai fini agonistici dagli atleti evoluti.
Dopo questa veloce panoramica possiamo ora affermare e capire che in merito alle tecniche del KODOKAN-JUDO, il Maestro Kano “adattò”, più che adottare, le tecniche conosciute, inserendo alcuni principi:
Ø ADOZIONE DI MOVIMENTI BASATI SU PRINCIPI SCIENTIFICI
Ø ELIMINAZIONE DEI MOVIMENTI DURI E PERICOLOSI DA SOPPORTARE
Ø USO DEL JUDOGI, una presa permette di controllare la caduta
Ø INSEGNAMENTO DELLE CADUTE
Ø ALLENAMENTO PER LO SVILUPPO ARMONIOSO DEL CORPO
Ø PRATICA DEL RANDORI - ESERCIZIO LIBERO
Ø PRATICA DEL KATA - FORMA PRESTABILITA

Ma cosa sono il randori ed il kata?
E possono farlo anche persone con minorazione visiva?
Certo, anzi gli atleti evoluti ed i judoka esperti trovano nel randori, come nello shiai, ed anche nell’esecuzione dei kata, la loro massima realizzazione.
Nel randori si combatte, ma non si tratta di vero e proprio combattimento da gara ma di allenamento libero. Non c’è punteggio, non c'è vinto né vincitore. Ci si confronta con i compagni eseguendo le tecniche, o meglio cercando di eseguire le tecniche in piedi o le immobilizzazioni a terra consapevoli che il compagno non solo non è d’accordo, ma vuole a sua volta eseguirle a noi. Attraverso il mio compagno mi perfeziono, attraverso il randori trovo il significato dello studio della tecnica e ne verifico l’apprendimento.
Lo shiai è il combattimento da gara. Si gareggia e si combatte, si vince e si perde. Ma per capire come vengono vissute le gare nella metodologia del judo, basti pensare che gli insegnanti che intendono mandare in gara i propri atleti devono decidere quando far effettuare loro i primi combattimenti Shiai, ove, contrariamente a quanto deve avvenire nel Randori, essi si trovano a poter subire ogni tipo di tecniche e di cadute. La decisione viene presa unicamente "quando essi sono in grado di affrontare il combattimento senza rischio". E’ importante che lo Shiai, o la gara, siano una esperienza educativa e la loro pratica sia un momento di crescita umana e Judoistica.
Prima di poter affrontare degli Shiai veri e propri i praticanti dovranno aver sviluppato varie capacità. Dovranno essere in grado di tenere una corretta attenzione, una buona posizione, una
buona capacità di spostarsi. Dovranno sapersi relazionare correttamente con Uke, cioè con l’avversario, e soprattutto dovranno saper controllare ogni caduta. A questo punto, sempre che essi
abbiano ben chiari i fondamenti morali del Judo, il rispetto del proprio compagno e posseggano una
tecnica sufficientemente matura, potranno combattere.
Naturalmente prima che un Judoka abbia questa maturità, può essere indirizzato verso le gare educative, che altro non sono che forme di competizione basate sull’ abilità nell'eseguire determinati esercizi di Judo e non combattimenti veri e propri.
La traduzione letterale del termine Kata è, “forma”, “modello”, “matrice”, “tipo”.
Ve ne sono diversi; consistono in un’esecuzione stilizzata di sequenze di tecniche e lo scopo era, e rimane, quello di tramandare nel tempo la forma più perfetta, più bella, più pura e più rappresentativa dello spirito estetico e dell’ideale del Judo, attraverso l’esecuzione di esercizi fissi, atti a far sì che, con la ripetizione e lo studio, se ne comprendano i suoi fondamenti.
L’insistere sull’esecuzione dei Kata, ha lo scopo di chiarire i principi del Judo, sia dal lato teorico sia da quello metodologico, perciò è una forma d’allenamento prestabilito in cui è possibile studiare il Judo, ed il modo migliore per ricercarne l’essenza.

Ma anche i non vedenti partecipano alle gare?
Certo. La legislazione italiana con la legge 104/92 ha soffermato la propria attenzione anche sul problema dell'attività sportiva disponendo esplicitamente “che l'attività e la pratica delle discipline sportive dei disabili siano favorite senza limitazione alcuna”. Mentre il Ministero della Sanità, con il Decreto del 4 marzo 1993, ha dato attuazione ai protocolli per la concessione dell'idoneità alla pratica sportiva agonistica alle persone handicappate; inserendo il judo tra gli sport ad impegno elevato, con conseguenti visite medico-sportive complete.
La IBSA , ovvero l’ International Blind Sport Federation, nata a Parigi nel 1981, costituisce il punto di riferimento a livello internazionale, è ufficialmente integrata nel Comitato Paralimpico Internazionale e conta più di 100 nazioni-membro affiliate. Il principale obiettivo della federazione consiste nel promuovere lo sport per non vedenti ed ipovedenti, favorendo la collaborazione degli enti operanti in questo settore. Per raggiungere questo obiettivo, IBSA struttura e regolamenta lo sport per non vedenti e ipovedenti a livello internazionale ed organizza competizioni a livello nazionale, continentale e mondiale. IBSA, inoltre, promuove incontri, seminari, conferenze e tutti gli eventi socio-culturali che possono favorire la diffusione della pratica sportiva per non vedenti e ipovedenti.
In Italia è la FISD, ovvero la Federazione Italiana Sport Disabili, a fungere da punto di riferimento nel campo dello sport per disabili. La FISD, fondata nel 1990, è nata dall’unione di diverse associazioni operanti nel settore, tra le quali ha svolto un ruolo predominante la FICS , Federazione Italiana Ciechi Sportivi. Oggi abbiamo il Comitato Italiano Paraolimpico che con i suoi nove dipartimenti è parte integrante del Coni.
La IBSA, con il Judo Sub Committee ha stilato un “International Judo Competition Regulations” che non prevede sostanziali differenze rispetto a quello praticato dai normovedenti. Le sole attenzioni particolari riguardano alcune segnalazioni tattili percepibili sul tatami (il campo di combattimento), al fine di servire da punti di riferimento per l'orientamento dei contendenti. In tale disciplina sportiva gli atleti non sono suddivisi in base al residuo visivo, bensì, com'è naturale, per categorie di peso e possono partecipare senza ausili particolari e senza che siano indispensabili accompagnatori-guida.

Il Judo ha la natura dell'acqua. L'acqua scorre per raggiungere un livello equilibrato. Non ha forma propria, ma prende quella del recipiente che la contiene. È indomabile e penetra ovunque. È permanente ed eterna come lo spazio e il tempo. Invisibile allo stato di vapore, ha tuttavia la potenza di spaccare la crosta della terra. Solidificata in un ghiacciaio, ha la durezza della roccia. Rende innumerevoli servigi e la sua utilità non ha limiti. Eccola, turbinante nelle cascate del Niagara, calma nella superficie di un lago, minacciosa in un torrente o dissetante in una fresca sorgente scoperta in un giorno d'estate.
Gunji Koizumi, Shi-han (1886-1964)

Come avete potuto notare non abbiamo parlato di judo adattato alle persone con minorazione visiva; abbiamo parlato del judo, come metodo educativo, cercando poi di evidenziare come alcune esperienze della pratica possano rivelarsi educative e riabilitative anche in relazione alle competenze del fare e del vivere quotidiano. Concludiamo con la speranza di aver risposto alle vostre ipotetiche domande e di aver reso l’idea di quanto il judo possa essere un buono sport per tutti.

Fonti:
Materiale della Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali;
Materiale della Federazione Italiana Sport Disabili;
uisp, L’insegnante di judo; area discipline orientali, settore judo Revision V1.1 del 30 Aprile 2004
M. Fossati; Tatami terapia o solamente buon judo?
J. Kano; Kodokan Judo;

Dott. Marco Fossati, docente di Educazione Fisica e Psicomotricità, svolge attività professionale come Istruttore di Orientamento e Mobilità e Autonomia Personale, formato dall’Istituto Ricerca Formazione Riabilitazione Nazionale. Ha conseguito il Master sulla riabilitazione del paziente ipovedente dell’Università di Bologna; è cintura nera secondo dan e pratica il judo con passione.

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